La morte di Pateh. Venezia patrimonio dell’umanità finisce nella ‘black list’ della disumanità.

La cronaca incrociata delle nostre vite sa essere agghiacciante. Come la morte di Pateh.
Nei giorni della tragedia dell’Hotel Rigopiano, simbolo nazionale del dolore che si intreccia al coraggio, alla generosità dei soccorritori e alla salvezza di chi è stato strappato dalla sepoltura di una slavina monumentale, Venezia diventa teatro di una tragedia destinata però ad intrecciarsi con l’anima più bestiale che siamo in grado di produrre. Con la morte di Pateh, la Venezia da salvare, la città patrimonio mondiale dell’umanità, finisce direttamente nella ‘black list’ della disumanità.

L’onda virale di video amatoriali che riprendono il giovanissimo Pateh Sabally mentre va a picco nelle acque del Canal Grande, accompagnato dalle voci di infami cittadini che gli danno l’estrema unzione, fa sprofondare Venezia. E non c’è protezione dell’Unesco che tenga per salvarla da questa pagina di inequivocabile vergogna.

Come in un Hotel Rigopiano al contrario, dove tutti hanno fatto il tifo e decine di soccorritori si sono donati per la salvezza di 40 persone sommerse da una montagna di neve, a Venezia, in centinaia, non siamo riusciti a salvare la vita di un solo uomo dalle placide acque di un catino d’acqua fredda.

Ai tanti fucili puntati sulle omissioni, i ritardi e le difficoltà della prima tragedia, si sono sostituiti i tanti, troppi alibi che in queste ore puntano a rimuovere la vergogna per questa vita persa: ‘Voleva morire’, ‘l’acqua era gelida e tuffarsi per salvarlo sarebbe stato un suicidio’, ‘sono stati gettati i salvagenti ma lui non ha voluto prenderli’, ‘non era facile capire che si trattava di suicidio’, ‘anche se qualcuno si tuffava per salvarlo, sarebbe stato trascinato a picco’.

Tante le domande agghiaccianti che quest’uomo, profugo invisibile che ha scelto di venire a Venezia per morire davanti a tutti, lascia alla nostra coscienza: ‘e se fossi stato lì, mi sarei tuffato per cercare di salvarlo?’, ‘e se al posto di un nero africano ci fosse stata una turista bianca, un uomo bianco, un gatto bianco?’, ‘e perché è mancato il coraggio di tutti, anche solo di una barca spinta dal motore della compassione verso Pateh?’.

Proprio in questi giorni Venezia stava mostrando solidarietà e affetto nei confronti di Pasquale, un senza dimora per scelta, difeso da migliaia di persone per un foglio di via ritenuto ingiusto. (Clicca qui per approfondire la vicenda). Un’ondata positiva, certo. Ma anche in questa reazione spontanea non sono mancate le pieghe e le piaghe di una solidarietà che nasconde discriminazione, odio, distinguo tra essere umano ed essere umano. Anche al di là del distinguo tra chi rispetta le regole e chi delinque.

Pieghe che in questo intrecciarsi di cronaca agghiacciante sono emerse violente con la morte di Pateh. Quei commenti di spettatori della morte, quegli ‘Africa’, ‘Insemenio, va a casa’, ‘Varemengo ti ta morti, eora neghite’, ‘ma questo è scemo…’, ‘ma fallo morire a sto punto…’, sono falle gigantesche che a Venezia, come in ogni teatro da ‘black list’ della disumanità, non abbiamo saputo e non sappiamo arginare. Tutti, anche chi non c’era. Anche chi ora si contorce di vergogna e tristezza. Anche chi ogni giorno cerca di salvarsi dalla bestialità e di testimoniare, di instillare almeno una goccia di umanità, di solidarietà, di rispetto.

Papa Francesco a Lampedusa

Non siamo riusciti a salvarti, Pateh.

Chiedo perdono.

11 pensieri su “La morte di Pateh. Venezia patrimonio dell’umanità finisce nella ‘black list’ della disumanità.”

    1. Ciao Luca. Non mi sembra una voce fuori dal coro. E’ una delle voci del coro che sta alimentando la cultura dell’alibi per auto assolverci da questa tragedia. Io, personalmente, mi ritengo responsabile anche se non c’ero. Gravemente responsabile.

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  1. Stefano, permettimi stavolta di dissentire. Leggi bene l’articolo. Ha semplicemente detto che buttarsi in acqua a quelle temperature è pericoloso. Ma che si poteva salvarlo. A maggior ragione, dato che c’erano un sacco di barche. Nessuna autoassoluzione.
    Mi pare abbastanza chiaro questo passaggio.
    «Venezia è città d’acqua e di barche. Il primo consiglio è lanciare l’avvertimento a una barca di passaggio: anche domenica passava una topetta, che è andata dritta», dice l’esperto, «Ci si avvicina con una barca, si tende la mano, lo si afferra per il bavero – anche con un mezzo marinaio – e lo si porta a terra, anche se è una persona che forse non vuole farsi salvare: il rischio di omissione di soccorso c’è. Quando facciamo i corsi spieghiamo che una persona impanicata, che magari non sa nuotare, spesso non vede l’aiuto: anche questo ragazzo potrebbe non aver visto i salvagente che gli sono stati lanciati». «Se invece siamo in acqua», conclude Basso, «l’ideale sarebbe essersi legati alla vita con una cima tenuta a terra da un altro soccorritore. In ogni caso bisogna avere con sé qualcosa di galleggiante, mal che vada anche un pallone, per farci appoggiare la persona che sta annegando. E se si agita, bisogna afferrarla da dietro, dalle spalle o rischia di tirarti giù: anche alzare un braccio, se si è vestiti, può provocare un effetto risucchio che fa affondare un corpo all’improvviso».

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    1. Non metto in dubbio l’assoluta verità di queste parole. Intendo dire che bisogna anche stroncare la montagna di facili alibi che poi si costruiscono sopra e che servono a molti per rimuovere ogni responsabilità morale.

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  2. Ovviamente, essendo lui un soccorritore, ha cercato di essere il più imparziale possibile, perchè rispondere emotivamente spesso è controproducente.
    Resta il fatto che noi veneziani abbiamo dimenticato la cultura del salvamento in acqua, ma soprattutto della solidarietà.
    Spero che la morte di questo ragazzo almeno ci serva da lezione. Che la sua morte non sia stata vana.

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  3. bianco nero o verde voleva morire a Venezia…un romanticone…perche rischiare la vita per impedirlo?varemengo africa e’ humor nero, discutibile come Hebdo,peccato che non c’era questo supereroe Ciancio se no l’avrebbe salvato lui…buffone.

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    1. Veramente la questione di Charlie Hebdo è completamente diversa. E’ nata da minacce dirette contro delle vignette, effettivamente discutibili, che Charlie Hebdo era stato uno dei rari a ripubblicare: non per accordo con il contenuto, ma perché contro un disegno, si disegna, si parla, si discute, si denuncia, ma non si uccide.
      Tutto il resto nasce da qui. Per decine d’anni, lo humor della satira non ha scandalizzato nessuno, e ha fatto ridere i suoi lettori.
      Perché la cosa è cambiata? Perché tutto d’un colpo, c’è chi vuole imporre la propria morale a tutti gli altri, e chiama mancanza di rispetto il fatto che non ci si sottometta.

      Nel caso di Pateh, non si tratta di morale o di humor, ma di insulti, odio e mancato soccorso a una persona in pericolo di morte. Sono reati. “Varemengo Africa” ne fa parte, tanto per precisare.

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