Caso Riina. Andrea Franco: “No alla vendetta di popolo. Va diffusa una cultura della giustizia”.

“Totò Riina è malato. Ha diritto ad una morte dignitosa”.
La decisione della prima sezione penale della Corte di Cassazione rimbalza in queste ore sull’opinione pubblica con lo stesso effetto della benzina sul fuoco.

La richiesta di scarcerazione per gravi motivi di salute era stata respinta lo scorso anno dal tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso “di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico”. Ora lo stesso tribunale è chiamato ad accertare se, al di là delle cure garantite nel penitenziario di Parma, “lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza e un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione della pena”.

Per il momento dunque l’ottantaseienne boss di Cosa Nostra, pluriergastolano in cella dal 1993, continua ad essere sottoposto al regime speciale di detenzione del 41 bis. Ma la sola ipotesi di un differimento della pena ha innescato un dibattito incendiario quanto delicato.

La cultura del diritto si ritrova infatti a barcollare di fronte al caso di un uomo considerato tuttora dalla Direzione nazionale antimafia come il ‘capo dei capi’.
A 25 anni di distanza dalle stragi di Capaci e via D’Amelio, e nel pieno di una stagione di paure, insicurezze e dilagante senso di ingiustizia, la vicenda rischia di passare come l’emblema supremo di uno Stato e di una giustizia cronicamente deboli, incapaci di garantire tutela agli innocenti e di imporre pene senza sconti ai condannati. Benzina insomma: cosparsa su un terreno infarcito di nuovi terrori, di populismi e di invocazioni al pugno duro su ogni fronte, da quello dei profughi a quello della sicurezza.

Il fronte di chi chiede allo Stato e alla giustizia di non cedere alla pietà del fine vita nei confronti di chi è stato spietato per tutta una vita, è ampio e indignato.

Di ben altro avviso è invece Andrea Franco, avvocato penalista veneziano, sempre in prima fila sui temi dei diritti, soprattutto quelli legati al nostro sistema carcerario. Un percorso professionale, quello di Franco, che peraltro sta incrociando da vicino lo snodo tra giustizia e criminalità organizzata: è lui infatti l’avvocato difensore di Felice Maniero, l’ex boss della mala del Brenta, ora in veste di testimone nel processo riguardante il ‘tesoro’ multi milionario accumulato nel corso di 20 anni di rapine, traffici e attività illecite. E’ lui che nel marzo 2016 chiede ai PM della Direzione distrettuale antimafia di Venezia di essere ascoltato, svelando la verità sul suo patrimonio, consentendo così agli inquirenti di eseguire sequestri per 17 milioni di euro e di arrestare sia il marito della sorella che un broker finanziario che avrebbe occultato il tesoro. I due sono accusati di riciclaggio con l’aggravante di aver favorito un’associazione mafiosa.

Prima di parlare del caso Riina, partiamo proprio da qui: quanto è difficile la sfida di una difesa della cultura del diritto, che può esplicitarsi anche in maniera ‘estrema’, con la difesa di un ex boss mafioso?

Andrea Franco

“L’avvocato non la deve pensare come il suo cliente. Il primo articolo del nostro codice deontologico dice che l’avvocato ha il compito di assicurare un giusto processo che tenga conto di precisi princìpi contenuti nella nostra Costituzione e nella Convenzione europea dei diritti umani. Le valutazioni morali non entrano in gioco nell’attività di avvocato. Ma non per questo – sottolinea Franco –  l’avvocato deve essere sprovvisto di un proprio bagaglio morale. Faccio l’esempio di Serafino Famà, il penalista catanese che difese in sede processuale il boss mafioso Giuseppe Maria Di Giacomo e che venne assassinato dalla stessa mafia nel 1995 proprio perché non cedette ai condizionamenti (Di Giacomo voleva far testimoniare a suo favore la cognata per scagionarlo, ma Famà ritenne che la donna dovesse astenersi in quanto prossima congiunta dell’imputato. Di Giacomo venne condannato e di questa sentenza incolpò l’avvocato Famà). Mi piace ricordare le parole di Ettore Randazzo, ex presidente delle Camere penali italiane, che sostenne la parte civile nel processo per l’assassinio di Famà e che richiamava al ‘vessillo della toga, ancora più bello ed orgoglioso quando svetta tra le avversioni e le ostilità, quando si fa strada controcorrente in difesa pur sempre di presunti innocenti…’.

Veniamo a Riina. La Cassazione ha fondato la propria sentenza proprio su quei principi costituzionali e della Convenzione europea dei diritti umani cui lei faceva riferimento…

“Innanzitutto mi sento di dire che la prima sezione penale della Cassazione non è un plotone di esecuzione ma nemmeno una allegra brigata. Negli anni ha affrontato con serietà vicende delicatissime, a partire dall’omicidio di Sara Scazzi. La sentenza chiede al Tribunale di Bologna di spiegare perché Riina, che non può deambulare, è afflitto da Parkinson e con una situazione cardiaca grave, sia ancora da considerare pericoloso. Attualmente il presidio sanitario non consente l’utilizzo di un lettino ospedaliero per sollevare Riina. La questione in gioco è quella della verifica sul fatto che la permanenza in carcere sia in linea con quel senso di dignità della persona umana, alla luce della sua malattia. La Carta costituzionale parla inoltre di rieducazione del reo e prevede che il reo ne sia cosciente. E’ vero che a Falcone e Borsellino e alle vittime di mafia non è stata riservata alcuna dignità. Ma non possiamo metterci a quello stesso livello: lo Stato deve alzarsi rispetto a quel livello”.

Ma dove si colloca in questa vicenda il punto di rispetto nei confronti dei familiari delle vittime di mafia?

“Credo che da parte di chi amministra la giustizia, o difende i presunti colpevoli, meglio, i presunti innocenti, ci debba essere un fortissimo rispetto delle vittime e dei familiari. Ma ciò non deve condizionare la giustizia: la Cassazione è la ‘Corte regolatrice’, è chiamata a sovrintendere all’applicazione delle regole. Spetta allo Stato e alla società civile garantire il rispetto delle vittime. Rispetto della vittima significa anche garantire processi che si concludano rapidamente…”

Il sistema giudiziario, con le sue falle, si è rivelato esso stesso complice di una sfiducia generale e di reazioni rabbiose. E’ d’accordo?

“Certamente sì. Viviamo in un sistema che manca di strutture.
In Corte d’Appello di Venezia, ad esempio, ci sono circa 13 mila procedimenti pendenti perché non viene fornito il personale amministrativo che muove la macchina complessiva. Per i rinvii nel settore civile si passa direttamente dal 2017 al 2020. L’ultimo concorso nazionale per cancellieri risale almeno 25 anni fa, il personale di carriera è all’osso, quel poco che rimane è iper oberato e si è costretti a pescare figure dal volontariato, come i Carabinieri pensionati che archiviano i fascicoli. Sempre a Venezia, l’ufficio Gip-Gup sta per implodere a causa di questa destrutturazione. La giustizia è amministrata male a causa di una politica che non la fa funzionare e che non valuta fruttuoso un investimento nella giustizia. Una giustizia efficace è invece fattore attrattivo, anche per chi vuole investire economicamente nel nostro Paese. Fino a qualche mese fa l’impressione personale era che il ministro Orlando non agisse male, ma ora ho la sensazione che sia più impegnato a fare la guerra a Matteo Renzi. E tra le principali emergenze da superare, perché penalizza i diritti dei cittadini, c’è quella della prescrizione. Basti pensare, a proposito di macchina giudiziaria, che il 40% del prescritto è determinato dal fatto che tutto resta nel cassetto dei PM, quando è sufficiente un interrogatorio per interrompere la prescrizione stessa”.

La politica difende davvero o si rivela nemica della cultura del diritto?

“Dipende. Esiste un fronte più garantista ed uno, rappresentato da 5 Stelle e Lega, che porta avanti quel populismo che è da considerarsi come un gravissimo pericolo democratico su tutti i fronti, compreso quello del lasciare sguarnita la tutela dei giudici”.

Il sentimento popolare di giustizia è imbevuto, spesso e volentieri, di quello spirito vendicativo che è emerso in modo forte attorno al caso Riina. Come si può rispondere a questo desiderio di vendetta?

“La vendetta di popolo si affronta con un’informazione corretta, con una cultura del processo fuori dagli ambiti professionali. Il mondo anglosassone insegna molte cose in questo senso e prevede nei confronti dei magistrati una forma di rispetto assoluta. La diffusione di questa cultura del processo spetta alle associazioni forensi, alla magistratura e alla politica. Come associazione nazionale forense e Camera penale di Venezia stiamo facendo questo lavoro di sensibilizzazione. Facendo capire, ad esempio, che non è aumentando le pene che si tutelano le vittime. Prendiamo il caso del femminicidio: i reati contro le donne sono rimasti tali e quali rispetto a prima dell’introduzione della legge. Risulta più utile un lavoro culturale, un messaggio che contrasti la cultura della ‘proprietà del maschio’. Questo per dire che anche a sinistra la politica deve smetterla col populismo. Altrimenti prevarrà sempre la pancia”.

Cultura della giustizia e cultura politica: lei si riconosce nella battaglia radicale?

“Sono iscritto al PD ma coltivo forti amicizie nel Partito Radicale, con figure come Emilia Rossi (nel Collegio del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale), Marco Taradash, Maria Brucale, avvocato molto attiva nel settore del diritto penitenziario, e Barbara Alessandrini, giornalista de L’Opinione e anche lei impegnata nel campo della tutela dei diritti. Non è una cultura sempre facile da comprendere a tutto tondo, anche se in molti rivendicano il fatto di appartenervi.
Si veda il fine vita, con la recente vicenda di DJ Fabo accompagnato da Marco Cappato a morire e liberarsi dalle proprie sofferenze, da una vita che lo rendeva prigioniero. Esiste quel momento di passaggio, dall’essere al non essere, a cui tutti arriviamo e che merita il rispetto di tutti”.

Giustizia e democrazia: sono sinonimi? Come inquadrare questo binomio?

“Credo proprio di sì. La giustizia è amministrata in nome del popolo, la democrazia è potere che spetta popolo. Quando questo binomio di reciproco rispetto viene a cadere siamo in dittatura. Non è un caso che in Turchia, da quando Erdogan è al potere, si sia imposto un regime che arresta e uccide avvocati e giudici, oltre ad aver eliminato in modo orribile la punibilità per il reato di stupri su minori seguiti da matrimonio”.

Nel tempo del terrore, dell’insicurezza e del panico irrazionale, vedi la tragedia sfiorata a Torino con l’onda umana di piazza San Carlo, è legittimo oppure fuori luogo attendersi un contributo ‘tranquillizzante’ dalla giustizia?

“Alla giustizia spetta un’amministrazione seria dei processi, cosa che, ribadisco, viene da sé nel momento in cui la macchina funziona. Detto ciò, bisogna riconoscere che gli avvocati ma anche i magistrati parlano talvolta in troppa libertà. Vedi il Procuratore della Repubblica di Catania che fa passare un messaggio secondo il quale tutte le ONG sono d’accordo con i trafficanti di esseri umani. Anche queste cose gettano insicurezza nelle persone. I procuratori devono fare i processi e non dichiarazioni avventate”.

Come valuta, in generale, la condizione dei carcerati nel nostro Paese? A quanti carcerati vengono oggi negati o non assicurati quegli stessi diritti umani che oggi sono rivendicati per Totò Riina?

Carcere
(Ph. Luca Rossato – Flickr Creative Commons )

“Dentro le carceri, in moltissimi istituti le persone sono solo dei numeri e non c’è la possibilità di imparare nulla se non a commettere altri reati. Ma non si può generalizzare. Venezia ha ad esempio un istituto femminile dove esistono realtà di reinserimento di assoluto valore per le detenute, grazie alla cooperativa che consente loro di realizzare e vendere prodotti, da quelli dell’orto ai cosmetici, dalle borse alle magliette. Analogamente a Padova il Due Palazzi ha una delle migliori pasticcerie. A Milano c’è una significativa esperienza di ristorazione. A Brescia pochi giorni fa una ragazza che faceva parte delle Bestie di Satana, condannata a 22 anni, ha ottenuto l’affidamento in prova e in questi anni è riuscita a laurearsi per due volte. Al tempo stesso, tra la famiglia della vittima e la ragazza stessa si è assistito ad un percorso di riconciliazione. Il padre della vittima ha rinunciato al risarcimento danni congratulandosi per questo cambiamento totale. Lui stesso ha avuto modo di dire che ‘Buttare via la chiave o peggio altre cose che ho sentito in questi anni credo siano pensieri assurdi, lontani dal mio modo di vedere le cose’.

Se Riina dovesse ottenere quanto richiesto, ci troveremmo di fronte ad uno Stato forte o debole?

“Nel momento in cui lo Stato dimostra non il lassismo ma la garanzia di una interpretazione corretta delle norme, traccia una impronta di forza. In caso contrario si verificherebbe una situazione destinata a palesare crepe nello Stato di diritto. Riina non può essere scarcerato ma ha diritto alla detenzione domiciliare o all’ospedale civile. In generale, tra il morire in carcere e il morire in casa c’è una profonda differenza. A casa ci può essere la mano di un figlio ad accompagnarti, in carcere si muore da soli, dietro le sbarre. Non è che lasciando crepare Riina al 41 bis, un trattamento ai limiti del disumano, ridiamo vita ai morti di mafia. Quelli non tornano indietro”.