Centrosinistra come Italia-Svezia: recupero impossibile.

Le manovre che si stanno consumando in questi giorni nel centrosinistra assomigliano ai disperati 90 minuti finali di Italia-Svezia. Una partita che è costata l’eliminazione degli azzurri dai mondiali di Russia, anche se tutti sanno che non è stato quel match la causa del clamoroso naufragio, bensì una gestione disastrosa che si è dipanata negli anni precedenti. Esattamente come gli anni del renzismo più sfrenato. Ora, a 90 giorni dal voto più recupero (meglio dire 120, come i tempi supplementari, visto che la data al momento più probabile è quella del 18 marzo), viene tentata questa retromarcia in zona Cesarini.

L’operazione richiede innanzitutto a Renzi di smentire Renzi. Basti solo pensare che tra i primi tentativi di dialogo effettuati da Piero Fassino, incaricato di svolgere il ruolo di pontiere, c’è quello con Massimo D’Alema, scissionista numero uno che con Bersani e Speranza ha detto addio al Pd dando vita ad MdP. Lo stesso Massimo D’Alema che Matteo Renzi, fin dall’inizio della sua ascesa, ha adottato come bersaglio principale della sua opera di rottamazione. Se è vero che in politica tutto è possibile, c’è da rimanere sbigottiti di fronte ad un rottamatore ridotto al tentativo di stringere patti con un diavolo che, ben lontano dall’essere stato pensionato, è ancora vivo e vegeto. Ciò significa non solo che Renzi non ha rottamato un bel niente ma soprattutto che il segretario dem si trova costretto a ritessere legami e progetti proprio con chi ha sempre ritenuto essere il principale responsabile (assieme a Bersani) di disfatte politiche epocali, degne della Caporetto azzurra. Come dire: costruiamo il futuro con le macerie.
Nel frattempo D’Alema ha rispedito al mittente l’ammiccamento fassiniano dirottandolo verso altri interlocutori titolati a farlo, a partire dal coordinatore Roberto Speranza. Rimpalli a parte, per gli esponenti di MdP è giunto il momento cruciale di fare i conti con la scelta di uscire dal Pd ben sapendo che, prima o poi, si sarebbe parlato di alleanze o meno con gli ex compagni di viaggio. Il momento è arrivato. I potenziali richiami della foresta potrebbero essere l’approvazione dello ius soli, alcune modifiche al Jobs Act, l’abolizione del Superticket sanitario, il via libera alla legge sul biotestamento, lo stop all’innalzamento dell’età pensionabile.

Se entro la fine della legislatura, dunque una manciata di settimane, si dovessero realizzare questi passaggi (o almeno qualcuno), allora più di qualcuno in MdP sarebbe disposto a scendere a patti con Renzi. Ma queste correzioni di rotta saranno sufficienti per giustificare, dopo la clamorosa frattura di pochi mesi fa, una ricomposizione da stretta alleanza? Basterà davvero rivendicare che abbiamo ottenuto ciò che volevamo e abbiamo riportato Renzi sulla retta via?

Se si pensa che non più tardi di dieci giorni fa dal fronte del Pd si sparava ad alzo zero su Pietro Grasso (il presidente del Senato che nell’assise del 2 dicembre potrebbe lanciare la propria candidatura a premier per la sinistra) e su MdP per la cocente sconfitta in Sicilia, l’ipotesi di una alleanza appare eufemisticamente incoerente. Forse, come più di qualcuno ipotizza, si tratta di una fase fatta di finzioni, del classico gioco del cerino in mano, dove conta addossare agli altri la colpa di un mancato accordo per salvare poi la faccia di fronte ad una probabile, nuova sconfitta nazionale. Ma anche a patto che si arrivi ad una alleanza, si tratterebbe di una soluzione meramente pragmatica, visto che la legge elettorale voluta dal Pd implica le larghe alleanze.

I vertici insomma si accorderebbero alla disperata per evitare di perdere collegi e parlamentari. Sarebbe una scelta destinata ad andare esclusivamente incontro a chi culla ambizioni da premier e da seggio, ma non sarebbe sufficiente per appianare le voragini che hanno segnato la separazione tra due mondi ormai distantissimi culturalmente. Anche se ci fosse lo sforzo di lasciarsi alle spalle gli screzi del recente passato (dal “ciaone” di Ernesto Carbone, sfottò dedicato agli elettori di sinistra che avevano votato sì al referendum sulle trivelle, fino al “fuori-fuori” che per lunghi mesi i renziani hanno invocato rivolgendosi alla minoranza del partito) resterebbero sul terreno altri macigni ben più pesanti.

Non sono infatti facilmente dimenticabili le rotture che con Matteo Renzi si sono consumate in questi anni, a partire dall’accelerazione verso politiche simil-liberiste nel mondo del lavoro, proseguendo con un’attenzione morbosa verso le eccellenze imprenditoriali e l’abbandono di politiche attente alle periferie sociali che nel frattempo si sono ingigantite. E poi le spaccature arrivate con il referendum costituzionale, la rottura con il fronte della scuola, lo spostamento verso destra sui temi della sicurezza e dell’immigrazione (impersonificate dal ministro dell’Interno Marco Minniti), il tentativo ripetuto di conquistare l’elettorato moderato, berlusconiano e radicalmente centrista, lisciando a questo costantemente il pelo e agendo ruvidamente di contropelo su quello di sinistra.

E’ questa evoluzione, durata anni, che ha condotto alla grande, profonda frattura. Per ricomporla è difficile pensare che sia sufficiente un accordo elettorale allestito a tempo quasi scaduto. Più logico ritenere che sia invece necessario un cambiamento radicale, di leadership e di idee. Dar vita ora ad una alleanza potrebbe rappresentare un rischio superiore rispetto al presentarsi divisi alle prossime elezioni politiche.

Se infatti è vero che il Rosatellum premia le alleanze è altrettanto vero che una parte consistente dell’elettorato potrebbe dire no ad un accordo su queste basi, decidendo così di abbandonare la nave, attraverso l’astensione o addirittura rivolgendo altrove il proprio consenso, a partire dai 5 Stelle. Ormai il richiamo del voto utile con lo spauracchio della destra o del M5S che altrimenti governerebbero il Paese non funziona più. Anche di fronte a questa ipotesi ingloriosa, non sarà irrilevante la schiera di chi dirà “ce ne faremo una ragione”. Proprio come amava dire Renzi. Proprio come di fronte al naufragio della nazionale di calcio: dopo una disfatta bisogna cambiare e rialzarsi. Meglio dunque restare divisi, esattamente come è stato per anni nella testa e nello schema di Renzi, ostinato nel voler tranciare ogni ponte con la sinistra. Cambiare adesso, in extremis e con l’acqua alla gola, è davvero qualcosa di finto e poco dignitoso per tutti.

 

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Grandi navi a Marghera: turismo über alles.

Una decisione andava presa. E c’è chi, come il sottosegretario dem all’economia, Pierpaolo Baretta, la definisce come scelta che «proietta Venezia nel futuro». Ma verso quale futuro viene proiettata Venezia dopo che il Comitatone (l’organismo di salvaguardia che riunisce Governo, Regione ed amministrazioni locali) ha imposto alle grandi navi il divieto di transito in bacino di San Marco, prevedendo la messa a regime, entro 3-4 anni, di un percorso alternativo (il canale di Malamocco) con approdo a Porto Marghera?

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Una decisione andava presa, certo, dopo anni di dibattiti che hanno segnato più paralisi che passi in avanti. E pensare che oltre sette anni fa furono l’allora sindaco di Venezia Giorgio Orsoni e la sua giunta di centrosinistra ad indicare con chiarezza Porto Marghera come soluzione che avrebbe consentito di risolvere la questione grandi navi, estromettendole non dalla laguna in senso stretto ma almeno dal cuore della città. Ed oggi è l’attuale sindaco Luigi Brugnaro, che di tutto aveva proposto tranne che l’opzione Marghera, a salire di gran carriera sul carro dei decisori, tanto per non perdere la faccia.

Una decisione andava presa, se non altro perché il ministro alle Infrastrutture, Graziano Delrio, doveva in qualche modo scrollarsela dal groppone, almeno in extremis, almeno alla vigilia della campagna elettorale per le politiche. Il nodo delle grandi navi a Venezia è stato e continua ad essere un tema nazionale: mostrare indecisione di governo non sarebbe stato un buon biglietto da visita in una campagna elettorale che, già di per sé, si preannuncia terribilmente difficile per il Pd.

Comunque sia – per sfinimento, lungimiranza o impeto decisionale – e fino a nuovo eventuale contrordine, il dado è tratto. Ciò non risolve tuttavia la domanda di fondo: sempre a patto che, a partire da ora, si dia concretezza a quanto è stato deciso, quale effetto-domino può innescare questo cambiamento per Venezia e per il suo territorio? Le perplessità e i timori non mancano. E non tutti appartengono al repertorio strettamente ambientalista che mette in guardia dai rischi di nuovi scavi (il presidente del Porto, Pino Musolino, garantisce «uno scavo di fanghi ridotto, senza danno idrogeologico») o di impatto sul sistema lagunare che si produrrà con la realizzazione dei nuovi approdi a Porto Marghera.

Qui la questione è ancora più ampia rispetto al già importante ventaglio dei dubbi sull’eco-compatibilità. E’ una questione di visione sul futuro. Questa scelta, sempre a patto che metta una pezza da “male minore” al problema dell’impatto delle grandi navi sulla città (in ogni caso con simultaneo rilancio dei transiti per il bacino di San Marco del segmento navale luxury di stazza minore, destinato all’attuale Stazione Marittima), apre al tempo stesso grandi interrogativi. A partire proprio dal cosa sarà Porto Marghera.

Sul futuro di questo polo, ormai ridotto a deserto produttivo dei tartari (vuoi per il mercato che cambia e condiziona, vuoi per l’estenuante guerra di stallo tra il partito della chimica e quello dell’ambiente, vuoi per l’immobilismo confindustriale) non esiste ancora una strategia definita. Se il capogruppo comunale Pd, Andrea Ferrazzi, sottolinea il fatto che «il Comitatone ha di fatto rispettato le decisioni della Città, facendo proprie le scelte che erano state votate nel Consiglio provinciale nel 2008 e nel Consiglio comunale nel 2012, rispettivamente con Il Piano Territoriale di coordinamento Provinciale e con il Piano di Assetto del Territorio», da parte sua il deputato di Mdp, Michele Mognato, dice che «manca all’appello un tassello essenziale. Ovvero il nuovo piano regolatore portuale, la cui versione attuale è datata 1965».

Nel febbraio 2016 sotto la gestione del presidente dell’Autorità Portuale, Paolo Costa, la redazione del nuovo Prg del Porto è stata affidata a quattro società «qualificate e certificate» e un paio di mesi dopo Costa ne presentò pubblicamente le linee guida, centrate su “logistica e grattacieli”, a tal punto che i giornali non ebbero difficoltà nel titolare “la nuova Manhattan”. Da allora tutto tace: di fatto il PRP è fermo ancora ad una fase interlocutoria, anche se Musolino ci fa sopra una scommessa: «la vera sfida è quella di fare un piano regolatore del sistema portuale che ci consenta di costruire una pianificazione strategica dell’area fino al 2050 e oltre: è su questo che vorrei venisse valutato il mio mandato».

Nel frattempo si è inserita la decisione sulle grandi navi: «la soluzione Porto Marghera – dice ancora Mognato – può andar bene se le grandi navi vengono inquadrate in un chiaro ridisegno complessivo di questa grande area. Altrimenti il rischio di un disequilibrio futuro, tutto a favore del turismo e a discapito della parte commerciale e di un diverso rilancio produttivo, diventa alto». Preoccupazioni che non sembrano invece attanagliare la giunta Brugnaro. Eloquenti le parole dell’assessore al turismo Paola Mar: «ricordiamo che come amministrazione comunale abbiamo redatto un progetto di governance territoriale che ha tra gli obiettivi anche quello di valorizzare il turismo a Mestre, Marghera e in generale tutta la Città Metropolitana. La scelta del Comitatone di far arrivare a Porto Marghera le grandi navi, che ogni anno portano in città oltre un milione e mezzo di visitatori, avrà benefici anche in quest’ottica».

Il tema dunque è aperto, così come lo spettro di scenari che potrebbero materializzarsi. In primo luogo quello di una Porto Marghera che diventerebbe nuovo motore propulsivo per quella che è già definita come “monocultura turistica” veneziana. Un modello senza alternativa che potrebbe conquistare, divorare e rimodellare in via definitiva anche tutta la terraferma, con una inevitabile ed ulteriore pressione fuori controllo. Altro che regolazione dei flussi turistici.

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Venezia da serenissima a fragilissima. Ma basta col mito dell’Aqua Granda.

4 novembre 2017. Ovvero, 51 anni dopo l’Aqua “granda”. Un anniversario che in apparenza è dal tono minore, come tutte le ricorrenze che cadono dopo la cifra tonda. Al tempo stesso, proprio perché meno permeato dalla solennità del ricordo, si tratta di un anniversario che offre l’occasione, ad oltre mezzo secolo di distanza, di rapportarsi in modo diverso con un evento, quello dell’acqua alta più invasiva che Venezia abbia mai subito, che ha modificato il DNA della città e dei suoi abitanti.

Dopo quel 4 novembre 1966, culmine di un ciclo di alluvioni, devastazioni e morti (nelle regioni settentrionali le vittime furono 87 e gli sfollati oltre 42 mila. In Toscana si contarono 47 morti, di cui 17 nella sola città di Firenze, oltre alle ingenti perdite materiali e del patrimonio artistico) Venezia non è stata più la stessa. Sotto quell’ondata di 194 centimetri la percezione della sua precarietà si è fatta carne, si è innestata nel sottopelle di tanti veneziani, cambiandone radicalmente la mentalità e l’atteggiamento. Da dominanti a dominati, da serenissimi a fragilissimi. 

Da quel momento le parole-chiave sono diventate “salvaguardia“,”sopravvivenza“, “salvezza“. La parola d’ordine è diventata “Save Venice”, come il nome del comitato privato statunitense tuttora molto attivo, nato a seguito di quegli eventi ed emblema della mobilitazione internazionale che si sviluppò a tutela della città. Mobilitazione nobile, come quella dei veneziani che a tutt’oggi fanno della difesa fisica, e della dignità della città, la loro ragione d’essere veneziani. Una nobiltà che fa i pugni (perdendo per inferiorità muscolare) con l’ignobile tradimento di chi ha speculato sulla salvezza di Venezia incarnata dal Mose, opera pensata per la difesa di Venezia delle acque alte.

Proprio lo scandalo Mose – che al di là delle sentenze ha comunque fatto emergere una diffusa complicità cittadina con il malaffare e la distrazione di danaro pubblico – è stato il ko tecnico supremo alla “nobiltà pugilistica” di chi combatte per salvare Venezia. Ma non è stato di certo l’unico ceffone pesante registrato in questi anni, in un crescendo di sostanziale disinteresse nei confronti di Venezia. Basti pensare, a livello nazionale, non solo al tramonto della Legge Speciale e dei suoi finanziamenti (drenati sempre dal Mose) ma anche al fatto che da anni è depositata e sepolta in parlamento una serie di proposte per una sua riforma.

Pure l’Unesco, nel frattempo, ha scoperto le proprie carte: gli ammonimenti lanciati agli amministratori per una vera tutela della città, pena l’esclusione di Venezia dall’elenco dei siti Patrimonio dell’Umanità, sono delle finzioni sceniche. La realtà è che l’Unesco ha bisogno di Venezia per mantenere il proprio prestigio, non il contrario. Aggiungiamoci l’assenza della Regione che poco si danna l’anima per Venezia, se non altro perché la città capoluogo non può contare su alcun rappresentante di Giunta e neppure in Consiglio. Aggiungiamoci Luigi Brugnaro e il nuovo corso di un’amministrazione cittadina più sensibile ai richiami dell’economia e del business (dalle grandi navi alla imponente ricettività turistica) rispetto a quelli dell’ambiente, della salvaguardia e della vivibilità. Aggiungiamoci, non da ultime, le cifre impietose riguardanti l’esodo dalla città storica dei suoi residenti, scesi proprio in questi giorni sotto la soglia dei 54 mila. La somma parla chiaro.

Eppure, se corrisponde al vero l’immagine di un fronte della salvaguardia finito al tappeto, spetta proprio a questa parte rialzarsi e reimpostare la propria guardia. L’impressione è che da quel 4 novembre 1966 la catena del nuovo DNA veneziano, basato sulla fragilità, abbia prodotto una difesa passiva, senza prospettiva di nuovo sviluppo. La sindrome della fragilità ha imposto in modo crescente la visione di una città da mettere costantemente sotto camera sterile, da isolare da ogni virus del mondo. In questa visione tutto ciò che è esterno alla città diventa morbo mortale. Ma la ricetta di una difesa immunitaria ad oltranza, ivi compresa la prescrizione medica della separazione amministrativa, non ha funzionato in questi 50 anni ed oltre. Perché evidentemente manca il respiro di una progettualità ampia, aperta ai cambiamenti del mondo e non solo basata sull’arroccamento.

Accanto alla preziosa nobiltà della difesa di Venezia sarebbe necessario iniettare una dose massiccia di politica che sappia proporre e realizzare un rilancio attivo, compatibile con la natura della città ma nondimeno “progressista”, in sintonia con le trasformazioni del mondo. Altrimenti, nello scontro tra estremi, è chiaro che continuerà a prevalere la parte che promuove, in nome dello sviluppo, un cambiamento incurante di ogni impatto fisico e morale. Per questi motivi, dopo 51 anni, sarebbe arrivato il momento di affrontare il 4 novembre consegnando definitivamente l’Aqua “granda” alla storia, liberando Venezia dalle catene di una sindrome della fragilità che si è dimostrata ampiamente deficitaria.

 

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Boom eroina a Mestre, inutile la “tolleranza zero” di Brugnaro.

9 morti nel giro di quattro mesi. Con Mestre a fare da epicentro di una escalation fatta di traffici regolati da organizzazioni sempre più dotate di grandi capitali, di guerre tra narcotrafficanti con i “nigeriani” a predominare, di sostanze sempre più pure, potenti e letali come l’eroina gialla e di decessi o salvataggi in extremis che fanno ripiombare il territorio in uno scenario appartenente a decenni ormai lontani.

In questi mesi la prima linea della sanità pubblica veneziana ha lanciato ripetutamente l’allarme su questa «vera bomba». Le forze dell’ordine hanno dato piena assicurazione sul fatto che stanno lavorando pancia a terra «giorno e notte, per giungere a dei risultati». Per disinnescare appunto una bomba che lascia sul terreno sempre più vittime: a livello statistico i dati del ministero dell’Interno sull’escalation in corso parlano di un +67% di morti per overdose da eroina in Veneto tra 2015 e 2016.

Boom eroina a Mestre

Il fenomeno è complesso, richiede un’azione coordinata, un pieno e massiccio impegno su vari fronti. Compreso quello della politica. Il tassello, o contributo, che compete a chi ha in mano l’amministrazione cittadina non è quello in grado, da solo, di fare il bello o cattivo tempo. Al tempo stesso è difficile ignorare che questa tragica bufera si scatena nel pieno della stagione di Luigi Brugnaro come sindaco. Il sindaco della tolleranza zero, del decoro, della sicurezza, della piazza pulita contro degrado e delinquenza. Oggi Mestre è invece sempre più piazza cruciale del narcotraffico e della morte a Nordest. Non, ovviamente, per colpa di Luigi Brugnaro. Ma quanto sta accadendo diventa unità di misura per valutare l’efficacia dell’azione messa in campo dall’amministrazione da oltre due anni a questa parte.

In questo senso, il fronte che più di altri ha il polso della situazione è quello di chi opera direttamente nell’ambito delle politiche sociali. Le testimonianze raccolte sono legate da due principali denominatori comuni. Il primo è che gli operatori di strada sono stati delegittimati: è saltato il loro ruolo di contatto diretto con i tossicodipendenti e dunque di “antenne” sui fenomeni in atto. Il secondo è che l’attività repressiva impressa da questa amministrazione sta facendo il gioco dei pesci grossi del narcotraffico.

La questione sollevata non è tanto di natura finanziaria, bensì politica: con l’amministrazione Brugnaro non si è interrotta una copertura di bilancio rispetto al passato: «Anzi – dice uno degli esperti – le risorse sono, in alcuni casi, anche in crescita. La cesura che si è invece verificata sta nella natura degli interventi introdotti con il nuovo corso. Con un deciso spostamento verso il governo di polizia, sollecitato incessantemente dal sindaco a tutti i livelli, e l’abbandono altrettanto deciso della modalità dei servizi di strada, ritenuti superflui o addirittura inutili. Fino a pochi mesi fa gli operatori rappresentavano ancora figure di mediazione, percepite dai tossicodipendenti come persone di cui fidarsi e non come guardie dalle quali scappare. Questa dimensione del rapporto, oltre che risultare essenziale per la riduzione del danno, era fondamentale per far partire una serie di informazioni alle altre strutture comunali fino ai vertici, in un flusso di segnalazioni e monitoraggi in tempo reale».

«Gli operatori erano dei confidenti: si facevano raccontare le cose per carpire ogni cambiamento di traffici e sostanze sul mercato e per capire quindi quali fossero, e per chi, i rischi maggiori. Il tutto in un approccio che, soprattutto nei casi di necessità di spostare da una zona i tossicodipendenti di strada, consentiva di trovare le soluzioni più dignitose e decorose per tutti, residenti compresi. Oggi questa catena di trasmissione si è interrotta. Dare la caccia ai pesci piccoli può regalare ai cittadini l’effetto ottico della piazza pulita, disperdendo e abbandonando a loro stessi i tossici. Ma l’effetto reale che questa azione produce corrisponde ad un ingigantimento dei problemi, lasciando la piazza libera ai pesci grossi. Le stesse forze di polizia, sollecitate da Brugnaro, lamentano una piega che depotenzia di fatto l’attività investigativa, impedendole di essere pienamente efficace».

Un altro esperto è ancora più tranciante: «al Parco della Bissuola l’amministrazione comunale ha deciso di abbattere i “cubi”, ritenuti come rifugio dello spaccio da radere al suolo. Ebbene, la cospicua spesa di 250 mila euro si è rivelata un pessimo investimento perché al posto dei ragazzi che si facevano gli spinelli ora ci sono i nigeriani a dettare legge portando l’eroina al parco».

Ma c’è anche chi, dall’interno della struttura comunale, nota delle correzioni in corsa: «Dopo il clamore mediatico che i decessi di questi mesi hanno avuto anche a livello nazionale, l’assessore alle politiche sociali Venturini sta cercando di ridare maggior ossigeno e ruolo agli operatori. Peccato che questi segnali di retromarcia avvengano quasi in un clima carbonaro, all’insaputa del sindaco che invece spinge unicamente sulla repressione».

Una strategia che non solo non sembra pagare ma che va in contrasto con le linee di intervento stabilite a livello internazionale: «dopo la Conferenza di Francoforte e la Dichiarazione di Varsavia sul ruolo delle città nella politica delle droghe e di riduzione del danno, a livello europeo c’è la presa d’atto consolidata che di fronte ad un fenomeno così diffuso è inutile la tolleranza zero. Serve invece un governo del territorio che contenga non solo azioni di mediazione ma anche quei diritti di cittadinanza che consentono alle amministrazioni di dare servizi di sostegno ed un’occasione di salvezza ai singoli che entrano nel tunnel della tossicodipendenza. Strappandoli così dalle grinfie dei pesci grossi. Se c’è una cosa che gli eventi drammatici di questi mesi dovrebbero consigliare è il ripristino di questa linea di intervento».

 

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Referendum, e se Zaia facesse flop? Ecco cosa accadrebbe.

«Una cosa è certa: se il risultato dell’affluenza non sarà soddisfacente, le carte dell’autonomia le chiudo in fondo a un cassetto». Luca Zaia lo ripete da settimane, come un mantra motivatore e scaramantico. E’ lui stesso a spostare in alto l’asticella della vittoria, ben oltre il quorum del 50%+1, fissato in 2.075.847 votanti. Lui vuole andare oltre, non vuole sentirsi dire da Roma che la metà dei veneti ha disertato la chiamata e pretende un «grande risultato con cui chiedere in primis tutta l’autonomia prevista dal Titolo Quinto della Costituzione». Difficile tradurre in cifre cosa significhi “grande risultato”. Ma, stando ai parametri e alle ambizioni del presidente leghista, è chiaro che se a barrare alla casella del SI sarà meno del 60% di veneti (ovvero 2,5 milioni di persone) il risultato non potrà corrispondere ad un successo.

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Ma quali conseguenze ci sarebbero e quale dazio politico si ritroverebbe a pagare in primo luogo Zaia in caso di flop? Il diretto interessato dice che «non la sentirei come una mia sconfitta, perché questo è un referendum proposto in Consiglio regionale ed è figlio di vent’anni di tentativi» e fa di tutto per non personalizzare la competizione, ripetendo che questo è il referendum dei veneti, non della Lega, non dei partiti e, men che meno, non suo.

In realtà, parole a parte, la macchina referendaria voluta ostinatamente da Zaia è frutto della sua ambizione plebiscitaria. In realtà, il suo quorum personale Zaia lo ha conquistato il 31 maggio 2015, eletto presidente con il 50,1%: un risultato stratosferico se si pensa che è stato ottenuto in un turno secco, dove per vincere bastava avere un voto in più degli altri. Andò a finire che agli avversari Zaia lasciò poche briciole, guadagnandosi una delega piena da parte dei veneti. Compresa quella di ottenere per via istituzionale una maggiore autonomia per il Veneto.

Zaia dunque vuole chiedere, con il referendum, un mandato che ha già in mano da tempo, peraltro rinnovato per via ufficiosa attraverso i periodici indici di gradimento che lo accreditano come presidente di Regione più amato d’Italia. Un ipotetico flop rappresenterebbe uno schiaffo alle ambizioni del presidente. Ridimensionerebbe innanzitutto quelle di caratura nazionale, sia nell’ottica di una sua potenziale candidatura a premier che nella prospettiva più concreta di diventare ministro in un governo di centrodestra. Ed è l’atteggiamento freddo di Matteo Salvini nei confronti del referendum a confermare che dietro la consultazione del 22 ottobre c’è in palio anche una ghiotta fetta di leadership: un successo autonomista oscurerebbe la linea “nazionalista” salviniana. E viceversa.

Sul fronte veneto invece, sempre in caso di flop, Zaia pagherebbe uno scotto minore, ma comunque non indolore. Il presidente, più che altro per mancanza di competitor, non verrebbe messo in discussione per una sua nuova corsa, nel 2020, verso il terzo mandato. Ma dal 23 ottobre in poi non avrebbe più altre carte propagandistiche da giocarsi. Dovrebbe, in altri termini, fare il presidente e portare a casa risultati ben più sostanziosi di quei provvedimenti e leggi spot che hanno segnato questa legislatura aprendo di continuo provocatorie trincee anti-Stato che si sono tradotte in numerosi contenziosi costituzionali, per giunta dal costo assai elevato per le casse regionali: oltre mezzo milione di euro in soli due anni.

Oltre a chiudere nel cassetto l’autonomia per qualche tempo, senza peraltro potersela prendere con i veneti che liberamente hanno disertato le urne, Zaia sarebbe chiamato a dare risposte concrete ai veneti. Con o senza autonomia, c’è infatti la necessità che la Regione riprenda possesso del proprio ruolo programmatorio e di guida nel cambiamento del Veneto. I Piani, le riforme, sono atti che la Regione già autonomamente può e deve fare. E se proprio Zaia dovesse prendersela con qualcuno, per la mancanza di risorse e autonomia, dovrebbe farlo con se stesso e con la scelta di non mettere istituzionalmente sul piatto il proprio largo consenso, bensì un ambizioso plebiscito personale, per forzare la mano con Roma.

 

 

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Brugnaro vincerà ancora. Perchè non se la tira.

Senza prenderlo per oro colato, ma volendo dare comunque credito al monitoraggiodell’istituto Index Research che rileva la soddisfazione nei confronti dell’operato dei sindaci, un dato appare chiaro: più va avanti e più Luigi Brugnaro incassa il gradimento dei cittadini. Lo scorso anno, di questi tempi, il sindaco fucsia era al quarto posto a livello nazionale, con un 61,2% di consensi. Ora, l’ultima rilevazione (su un campione di 500 residenti intervistati, ‘stratificati per caratteristiche socio-demografiche’) regala a Brugnaro un solitario secondo posto con un apprezzamento del 61,5%, di poco dietro al primo cittadino di Firenze, Dario Nardella (62,1%).


Una medaglia d’argento che ad oggi, senza appunto considerarla come oro colato, gli garantirebbe una rielezione al primo turno e ad occhi chiusi. Fin qui i dati, che Index Research consegna, senza chiavi di lettura blindate, ad una libera interpretazione. Perché, dunque, la ‘luna di miele’ amministrativa di Brugnaro prosegue senza segnali di crisi e, anzi, si rafforza nel sentimento maggioritario dell’opinione pubblica veneziana?

Va detto innanzitutto che rilevazioni di questo tipo premiano soprattutto la notorietà. Un fattore che non manca di certo al sindaco di Venezia, presente su vari fronti, da quello sportivo con la Reyer campione d’Italia di basket a quello imprenditoriale con Umana. Se poi si aggiunge la sua innata capacità di conquistare comunicativamente il palco, tra veraci polemiche, battute al fulmicotone e vendite promozionali di ogni evento possibile e immaginabile che si tiene dentro i confini comunali, ecco allora che Brugnaro diventa cavallo di razza ideale per ogni competizione sondaggistica.

Ciò tuttavia non basta a spiegare il perché di una notorietà colta dalla maggioranza come positiva.
Un possibile aiuto nel comprendere i motivi del successo, sta nel guardare al recente passato dei primi cittadini veneziani di centrosinistra. A partire dal filosofo Massimo Cacciari, passando per il decisionista Paolo Costa e per finire con l’aristocratico Giorgio Orsoni, il denominatore comune dei tre è stato quello di aver creato, per atteggiamento snob, carattere schivo o allergia alla gente, una distanza netta tra loro e i cittadini. Per anni, in maniera crescente (solo il primo Cacciari sapeva ancora viaggiare in vaporetto e parlare a tutti), la città, soprattutto la terraferma, ha vissuto questo distacco. Anche la presenza e la fisicità contano.

Dopo tanti anni, e per giunta ora che siamo in piena stagione di distacco tra politica e cittadini, Luigi Brugnaro ribalta quel cliché. In modo ruffiano o sincero, calcolato o spontaneo che sia, la sua è diventata una presenza percepita fisicamente soprattutto in quella terraferma che a lungo si è sentita orfana di sindaci lontani. Una presenza non tanto istituzionale bensì popolare.
I selfie, le pacche sulle spalle, le partecipazioni a bicchierate, premiazioni, sagre, eventi musicali, spettacoli di piazza e carnevali di periferia (memorabile la sua battaglia a colpi di coriandoli ingaggiata con un bambino a Marghera) sono entrare a far parte di un repertorio da sindaco di paese. E per questo dunque popolare, a dispetto della sua megalomania (altrettanto memorabili il comizio post trionfo Reyer in piazza Ferretto e la sua recente festa di compleanno al palazzetto dello sport) e del suo carattere irascibile e rude.

Brugnaro vince inoltre nell’opinione pubblica perché è vincente. Il fatto che sia un ricco imprenditore non viene percepito come elemento di distacco bensì, nella sua veste amministrativa, di garanzia e fiducia (è ricco, ergo non ha bisogno di rubare). In modo altrettanto rilevante pesa il suo non essere politico e l’aver saputo mantenere, in questi due anni abbondanti, un distacco dai classici rituali della mediazione politico-partitica.
Anche il suo essere allergico alla democrazia mediata, al confronto, diventa una qualità apprezzata perché, almeno in linea teorica, corrisponde a decisionismo.

La forte tendenza all’unilateralismo dell’uomo solo al comando viene considerato dalla maggioranza come male minore o come fattore necessario per togliersi di dosso la sensazione di paralisi amministrativa. Poi, se tutto questo produca o meno effetti concreti (dal fronte della sicurezza a quello del turismo e del decoro fino ai servizi sociali e amministrativi) non è il tema centrale che si sviluppa nel ‘sentiment’ dell’opinione pubblica rilevato da Index Research.
La presenza, la popolarità di Brugnaro consente al sindaco di annusare nel profondo l’aria che tira.
Le sue uscite-choc, come il ‘ghe sparemo’ a chi osa urlare ‘Allah akbar’ in piazza San Marco, sono frutto di una sintonia senza fronzoli con quel ‘sentiment’. Tutto questo frutta consenso, apprezzamento, seguito.

In questo meccanismo resta inesorabilmente schiacciato il fronte minoritario dei critici e delle opposizioni politiche. Questioni come quelle del conflitto di interesse tra il Brugnaro sindaco e il Brugnaro imprenditore, della legalità istituzionale applicata nei rapporti con i dipendenti comunali, della funzione del Comune come soggetto prioritariamente erogatore di servizi e del discutibile tasso di democrazia istituzionale impressa da questo nuovo corso amministrativo, diventano spine nel fianco snob e noiose, disturbatrici e preconcette. Lontane dal sentiment. Impopolari.

Brugnaro intanto continua a viaggiare spedito in luna di miele, verso un tranquillo secondo mandato. E, anche se non va presa per oro colato, la conquista del secondo scalino nel podio nazionale, costringe per l’ennesima volta gli avversari politici di Brugnaro ad una seria riflessione sulle forme e sui modi di essere presenti nel tessuto di questo territorio comunale.

Scritto per vvox.it – http://www.vvox.it/2017/09/29/brugnaro-vincera-ancora-perche-non-se-la-tira/