Le manovre che si stanno consumando in questi giorni nel centrosinistra assomigliano ai disperati 90 minuti finali di Italia-Svezia. Una partita che è costata l’eliminazione degli azzurri dai mondiali di Russia, anche se tutti sanno che non è stato quel match la causa del clamoroso naufragio, bensì una gestione disastrosa che si è dipanata negli anni precedenti. Esattamente come gli anni del renzismo più sfrenato. Ora, a 90 giorni dal voto più recupero (meglio dire 120, come i tempi supplementari, visto che la data al momento più probabile è quella del 18 marzo), viene tentata questa retromarcia in zona Cesarini.
L’operazione richiede innanzitutto a Renzi di smentire Renzi. Basti solo pensare che tra i primi tentativi di dialogo effettuati da Piero Fassino, incaricato di svolgere il ruolo di pontiere, c’è quello con Massimo D’Alema, scissionista numero uno che con Bersani e Speranza ha detto addio al Pd dando vita ad MdP. Lo stesso Massimo D’Alema che Matteo Renzi, fin dall’inizio della sua ascesa, ha adottato come bersaglio principale della sua opera di rottamazione. Se è vero che in politica tutto è possibile, c’è da rimanere sbigottiti di fronte ad un rottamatore ridotto al tentativo di stringere patti con un diavolo che, ben lontano dall’essere stato pensionato, è ancora vivo e vegeto. Ciò significa non solo che Renzi non ha rottamato un bel niente ma soprattutto che il segretario dem si trova costretto a ritessere legami e progetti proprio con chi ha sempre ritenuto essere il principale responsabile (assieme a Bersani) di disfatte politiche epocali, degne della Caporetto azzurra. Come dire: costruiamo il futuro con le macerie.
Nel frattempo D’Alema ha rispedito al mittente l’ammiccamento fassiniano dirottandolo verso altri interlocutori titolati a farlo, a partire dal coordinatore Roberto Speranza. Rimpalli a parte, per gli esponenti di MdP è giunto il momento cruciale di fare i conti con la scelta di uscire dal Pd ben sapendo che, prima o poi, si sarebbe parlato di alleanze o meno con gli ex compagni di viaggio. Il momento è arrivato. I potenziali richiami della foresta potrebbero essere l’approvazione dello ius soli, alcune modifiche al Jobs Act, l’abolizione del Superticket sanitario, il via libera alla legge sul biotestamento, lo stop all’innalzamento dell’età pensionabile.
Se entro la fine della legislatura, dunque una manciata di settimane, si dovessero realizzare questi passaggi (o almeno qualcuno), allora più di qualcuno in MdP sarebbe disposto a scendere a patti con Renzi. Ma queste correzioni di rotta saranno sufficienti per giustificare, dopo la clamorosa frattura di pochi mesi fa, una ricomposizione da stretta alleanza? Basterà davvero rivendicare che abbiamo ottenuto ciò che volevamo e abbiamo riportato Renzi sulla retta via?
Se si pensa che non più tardi di dieci giorni fa dal fronte del Pd si sparava ad alzo zero su Pietro Grasso (il presidente del Senato che nell’assise del 2 dicembre potrebbe lanciare la propria candidatura a premier per la sinistra) e su MdP per la cocente sconfitta in Sicilia, l’ipotesi di una alleanza appare eufemisticamente incoerente. Forse, come più di qualcuno ipotizza, si tratta di una fase fatta di finzioni, del classico gioco del cerino in mano, dove conta addossare agli altri la colpa di un mancato accordo per salvare poi la faccia di fronte ad una probabile, nuova sconfitta nazionale. Ma anche a patto che si arrivi ad una alleanza, si tratterebbe di una soluzione meramente pragmatica, visto che la legge elettorale voluta dal Pd implica le larghe alleanze.
I vertici insomma si accorderebbero alla disperata per evitare di perdere collegi e parlamentari. Sarebbe una scelta destinata ad andare esclusivamente incontro a chi culla ambizioni da premier e da seggio, ma non sarebbe sufficiente per appianare le voragini che hanno segnato la separazione tra due mondi ormai distantissimi culturalmente. Anche se ci fosse lo sforzo di lasciarsi alle spalle gli screzi del recente passato (dal “ciaone” di Ernesto Carbone, sfottò dedicato agli elettori di sinistra che avevano votato sì al referendum sulle trivelle, fino al “fuori-fuori” che per lunghi mesi i renziani hanno invocato rivolgendosi alla minoranza del partito) resterebbero sul terreno altri macigni ben più pesanti.
Non sono infatti facilmente dimenticabili le rotture che con Matteo Renzi si sono consumate in questi anni, a partire dall’accelerazione verso politiche simil-liberiste nel mondo del lavoro, proseguendo con un’attenzione morbosa verso le eccellenze imprenditoriali e l’abbandono di politiche attente alle periferie sociali che nel frattempo si sono ingigantite. E poi le spaccature arrivate con il referendum costituzionale, la rottura con il fronte della scuola, lo spostamento verso destra sui temi della sicurezza e dell’immigrazione (impersonificate dal ministro dell’Interno Marco Minniti), il tentativo ripetuto di conquistare l’elettorato moderato, berlusconiano e radicalmente centrista, lisciando a questo costantemente il pelo e agendo ruvidamente di contropelo su quello di sinistra.
E’ questa evoluzione, durata anni, che ha condotto alla grande, profonda frattura. Per ricomporla è difficile pensare che sia sufficiente un accordo elettorale allestito a tempo quasi scaduto. Più logico ritenere che sia invece necessario un cambiamento radicale, di leadership e di idee. Dar vita ora ad una alleanza potrebbe rappresentare un rischio superiore rispetto al presentarsi divisi alle prossime elezioni politiche.
Se infatti è vero che il Rosatellum premia le alleanze è altrettanto vero che una parte consistente dell’elettorato potrebbe dire no ad un accordo su queste basi, decidendo così di abbandonare la nave, attraverso l’astensione o addirittura rivolgendo altrove il proprio consenso, a partire dai 5 Stelle. Ormai il richiamo del voto utile con lo spauracchio della destra o del M5S che altrimenti governerebbero il Paese non funziona più. Anche di fronte a questa ipotesi ingloriosa, non sarà irrilevante la schiera di chi dirà “ce ne faremo una ragione”. Proprio come amava dire Renzi. Proprio come di fronte al naufragio della nazionale di calcio: dopo una disfatta bisogna cambiare e rialzarsi. Meglio dunque restare divisi, esattamente come è stato per anni nella testa e nello schema di Renzi, ostinato nel voler tranciare ogni ponte con la sinistra. Cambiare adesso, in extremis e con l’acqua alla gola, è davvero qualcosa di finto e poco dignitoso per tutti.
Scritto per Vvox.it – https://www.vvox.it/2017/11/17/centrosinistra-alleanze-in-zona-cesarini-no-grazie/